L'ALIMENTAZIONE |
Due grandi cucine
La tavola giapponese | |
Il riso in giappone ricopre
un'importanza fondamentale, infatti non solo è l'alimento base, ma
anticamente costituiva l'unità principale di "determinazione" economica.
In età feudale, ad esempio, ogni feudo era misurato in base alla quantità
di koku di riso che produceva la terra (ogni koku equivaleva più o meno a
180 litri). Del resto, la storia dell'agricoltura giapponese va di pari
passo con la storia del riso e con le innovazioni tecnologiche tese ad
incrementare la produzione di questo cereale. Introdotto in giappone dalla
Cina intorno al IV secolo a.c. (anche se la cultura sistematica risale al
II o III secolo d.C., divenne il pasto per antonomasia (meshi o gohan),
nonché cibo degli dei, a cui tuttora viene offerto per propiziarne la
benevolenza. In seguito alle riforme terriere promosse nel secondo
dopoguerra che crearono una classe di proprietari indipendenti interessati
più alla produzione che alla semplice messa a coltura del terreno dato in
usufrutto, la quantità di riso raccolto (molto carente, invece, durante la
guerra), aumentò notevolmente come pure il grado di autosufficienza
agricola del Paese. Del riso non si spreca nulla: da esso viene distillato il sake, la bevanda nazionale; con le foglie vengono realizzati oggetti di uso quotidiano; le spighe divenute paglia compongono i tatami e vengono utilizzate ancora oggi nella costruzione dei tetti tradizionali; da residui, infine, opportunatamente trattati, si produce carta e altro materiale utilizzabile. Il riso onnipresente sulla tavola giapponese viene elaborato in infinite varianti, il riso bianco (shirogohan) che accompagna i tre pasti principali viene cotto a vapore in apposite pentole e poi trasferito con cura nelle ciotole utilizzando un cucchiaio di legno, versando il rimanente in un contenitore di legno che mantiene il calore, a disposizione dei commensali sulla tavola. L'o-kayu è una minestra leggera a cui ricorrere specie se si è leggermente indisposti di stomaco mentre il kamameshi è riso insaporito da carne e vegetali fatti cuocere insieme e servito una ciotola con coperchio in terracotta; i domburi sono invece riso e striscioline di carne di maiale o gamberoni fritti o uova strapazzate. Le paste è possibile dividerle in due tipi: quella scura (soba), di grano saraceno, diffusa nella zona di Tokyo, e quella bianca (udon e somen) di farina di frumento, tipica delle province di Kyoto e Osaka. La pasta tradizionale nipponica può essere considerato un piatto fast-food, ideale per le pause di lavoro; i sobaya sono i locali specializzati per i vari tipi di pasta. Il pesce insieme al riso è l'alimento base fin dai tempi più remoti. In Giappone è in gran parte mangiato crudo per assaporare il raffinato e differente gusto di ogni varietà di pesce. Il sashimi (pesce crudo tagliato a fettine sottilissime) è infatti il piatto nobile per autonomasia per il quale di un pesce viene utilizzata solo una piccola parte, la migliore, purché freschissimo e di prima qualità. Si usa intingere ogni fettina nella salsa di soia dopo avervi sciolto un po' di wasabi (rafano verde). La carne ha un diffuso consumo, relativamente recente, successivo all'apertura del Paese all'occidente con la restaurazione Meiji del 1868; prima di allora, il buddismo vietava l'uccisione di animali a quattro zampe. Il pollo ha trovato la sua forma migliore negli yakitori, gustosi spiedini molto diffusi; la carne bovina si può assaporare come shabu-shabu, tagliata in sottilissime fettine sbollentate in un brodo saporito; il maiale viene servito come tonkatsu, una frittura insaporita da una salsa dolciastra. I dolci giapponesi hanno poco a che vedere con i nostri dolciumi: solo zucchero di canna, marmellata di azuki (fagioli rossi) e una leggerissima pasta di acqua e farina. I dolci possono essere divisi in due categorie: kanagashi (dolci morbidi, che possono essere conservati per un periodo brevissimo) e higashi (dolci secchi, che possono essere conservati a lungo). In Giappone i dolci non vengono quasi mai serviti a fine pasto ma accompagnano il tè. |
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I primi dieci prodotti alimentari importati in
Giappone
1991 |
1992 |
1993 |
Gamberetti Maiale Manzo Grano Tonno Soia Frumento Salmone/Trote Granchio Anguilla |
3,070 |
308,0 |
2,886 |
293,7 |
3,231 |
316,6 |
Fonte: Ministero delle Finanze giapponese, 1993.
La tavola italiana | |
Nel 1970 a Tokyo esistevano tre
ristoranti italiani dei quali uno di incerta origine svizzera, a Kobe ne
esisteva uno piccolo e semideserto e ad Osaka nessuno. Oggi è impossibile
fare una statistica perché ne esistono migliaia, dei quali più di 2.000
solo a Tokyo. Per dimostrare come sono cambiati i tempi basta citare l'esempio di un famosissimo ristorante francese di Tokyo che anni fa era una istituzione mentre oggi è stato sostituito con un ristorante italiano. Linguine al pesto, spaghetti ad aglio e olio, al nero di seppia sono ormai piatti popolarissimi, oltre ai sempre conosciuti spaghetti alle vongole ben familiari a tutti i giapponesi. Tale successo della cucina italiana è dovuto essenzialmente alle giovani generazioni giapponesi che venendo in europa hanno deciso che la cucina italiana è quella più vicina ai loro gusti e la più buona. Ciò ha creato una straordinaria domanda di prodotti alimentari italiani sul mercato interno giapponese e una proliferazione di ristoranti italiani. Oggi è normale entrare nei grandi supermercati e trovare banchi che espongono decine di qualità di olio vergine di oliva, banchi stracolmi di mozzarelle a offerta speciale, aceto balsamico di tutti i tipi. Grande richiesta anche di vini italiani finalmente di grande prestigio pronti ad essere giudicati non solo dai sommeliers, ma anche da tanti giapponesi che fanno ormai gran mostra della terminologia specializzata come "fruttato", "retrogusto" etc... Sino a qualche anno fa gli esportatori italiani di vino in Giappone erano relegati al quinto posto nella graduatoria dei principali venditori di vino. A partire dal 1965, si è assistito ad un sensibile recupero del consumo di vini italiani in Giappone, dapprima nei confronti della Francia e poi della Germania; la quota dei vini italiani è così balzata al 13%, più del doppio di quattro anni prima. |
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